Sulle lesioni dei diritti della persona attraverso internet

Ogni persona è titolare di diritti della personalità, che la Costituzione definisce assoluti ed inviolabili. Qui vengono in rilievo – senza alcuna pretesa di esaustività, né di approfondimento – il diritto al nome, cioè il diritto ad essere identificato con il proprio nome; il diritto all’identità personale, cioè il diritto ad essere rappresentato per le idee effettivamente professate e le azioni realmente compiute; il diritto all’immagine, cioè il diritto a che il proprio volto appaia solo dietro consenso o, se si tratta di persona nota o luogo pubblico, quando e nei limiti in cui è necessario; il diritto alla riservatezza, cioè il diritto a che la propria sfera privata non venga diffusa ed il diritto all’onore, cioè il diritto che a che non venga pregiudicata la reputazione di una persona. La legge sanziona la violazione di tali diritti, sia civilmente (con l’inibizione e/o il risarcimento) che penalmente (con l’applicazione della pena prevista per il reato di diffamazione). Attraverso i mass-media ed internet vengono quotidianamente perpetrate aggressioni, a volte anche violente, dei diritti della persona, perciò viene invocata da più parti l’esigenza di una specifica disciplina, che consenta di valutare quanto è lecito pubblicare su carta stampata ed internet. Il tema è attuale. Si pensi al caso Sallusti – concernente la diffamazione a mezzo stampa – ed il caso Kate Middleton, a testimonianza del fatto che l’esigenza di una specifica tutela – in questo caso civile – viene sentita anche oltre confine. Internet non ha limiti territoriali (tanto è vero che è visibile in tutto il mondo), né di lingua (sulla rete sono facilmente reperibili traduttori gratuiti), né di tempo (la pubblicazione sul web è visibile sinché non viene rimossa). I diritti della persona, dunque, su internet si atteggiano in modo diverso e pongono problematiche particolari. In mancanza di una specifica disciplina, ovviamente, gli operatori del diritto sono tenuti ad applicare la legislazione vigente, cioè il codice civile, il codice penale, la legge sulla privacy e, se del caso, la legislazione internazionale e comunitaria (prescindiamo dai codici di auto-disciplina e dalla responsabilità per fatto altrui, specie del direttore del giornale e del provider). La legge vigente non è stata certo pensata per disciplinare quanto ancora doveva ancora avvenire al tempo della redazione dei codici, nondimeno contempera i diritti della persona con i diritti di critica e cronaca. Anche tali diritti, infatti, sono previsti dalla Costituzione e ritenuti assoluti ed inviolabili, in quanto espressione di diritti della persona, rispettivamente del diritto di professare il proprio pensiero (il diritto di critica) e di riportare quanto accade (il diritto di cronaca). L’equilibrio, come insegna il buon senso, prim’ancora che la giurisprudenza, risiede nel fatto che ogni persona è libera di pubblicare quanto pensa e di riferire quanto accade, a condizione che non violi i diritti della personalità altrui. Ne discende logicamente che: – identificare una persona con un nome diverso dal suo significa violare il suo diritto al nome; – dire che una persona ha professato certe opinioni o compiuto certe azioni – se non è vero – significa violare il suo diritto all’identità personale; – pubblicare la foto di una persona senza il suo consenso o all’infuori dei casi (e dei limiti) in cui è consentito significa violare il suo diritto all’immagine; – riferire di fatti inerenti la vita privata di una persona significa violare il suo diritto alla riservatezza (che include quello all’oblio, cioè il diritto a che vengano dimenticate, con il tempo, le circostanze negative che la riguardano); – pronunciare espressioni in sé offensive nei confronti di una persona significa violare il suo diritto all’onore ed alla reputazione. La Suprema Corte ha osservato che “Per considerare la divulgazione di notizie lesive dell’onore lecita espressione del diritto di cronaca ed escludere la responsabilità civile per diffamazione, devono ricorrere tre condizioni consistenti: a) nella verità oggettiva; b) nella sussistenza di un interesse pubblico all’informazione, vale a dire nella cd. pertinenza; c) nella forma “civile” dell’esposizione dei fatti e della loro valutazione, e cioè nella cd. continenza, posto che lo scritto non deve mai eccedere lo scopo informativo da conseguire. Il potere-dovere di raccontare e diffondere a mezzo stampa notizie e commenti, quale essenziale estrinsecazione del diritto di libertà di informazione e di pensiero, incontra limiti in altri diritti e interessi fondamentali della persona, come l’onore e la reputazione, anch’essi costituzionalmente protetti dagli art. 2 e 3 cost. dovendo peraltro, in materia di cronaca giudiziaria, confrontarsi anche con il presidio costituzionale della presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27 cost. La verità di una notizia mutuata da un provvedimento giudiziario sussiste ogniqualvolta essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o travisamenti di sorta, dovendo il limite della verità essere restrittivamente inteso. L’esimente, anche putativa, del diritto di cronaca giudiziaria di cui all’art. 51 c.p., va, dunque, esclusa allorché manchi la necessaria correlazione tra fatto narrato e fatto accaduto, il che implica l’assolvimento dell’obbligo di verifica della notizia e, quindi, l’assoluto rispetto del limite interno della verità oggettiva di quanto esposto, nonché il rigoroso obbligo di rappresentare gli avvenimenti quali sono, senza alterazioni o travisamenti di sorta, risultando inaccettabili i valori sostitutivi, quale quello della verosimiglianza, in quanto il sacrificio della presunzione di innocenza richiede che non si esorbiti da ciò che è strettamente necessario ai fini informativi” (Cassazione civile, sez. III, 20/07/2010, n. 16917). Il diritto di cronaca, quindi, è condizionato all’esistenza dei seguenti presupposti: “la verità oggettiva o anche solo putativa dei fatti riferiti, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca, tenuto conto della gravità della notizia pubblicata; l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (cosiddetta pertinenza); la correttezza formale dell’esposizione (cosiddetta continenza)” (Cassazione civile, sez. III, 20/10/2009, n. 22190). Le 3 condizioni (obbligo di verità, pertinenza e continenza) debbono sussistere contemporaneamente (non ne bastano, ad esempio, una o due su tre) ed in qualunque tipo di pubblicazione, incluse quella sul web, diversamente il fatto dev’essere sanzionato in sede civile (inibitoria e/o risarcimento) ed anche in sede penale se integra gli estremi della diffamazione. Il medesimo fatto può anche essere oggetto di tutela anticipata, cioè di ricorso d’urgenza in sede civile e di sequesto penale (http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=4987). Il Tribunale Civile di Genova ha acutamente osservato che “l’onore e la reputazione costituiscono diritti della persona costituzionalmente garantiti e la loro lesione legittima sempre la persona offesa a chiedere il risarcimento del danno non patrimoniale, anche quando il fatto illecito non integri gli estremi di alcun reato, al fine di bilanciare i contrapposti interessi delle parti e i beni tutelati. In particolare, la divulgazione di notizie lesive dell’onore e della reputazione altrui costituisce esercizio legittimo del diritto di cronaca e critica solo quando ricorrono determinate condizioni, quali la verità della notizia, la pertinenza della stessa, intesa come interesse pubblico alla conoscenza del fatto e la continenza, ossia la correttezza formale dell’esposizione. La narrazione di un fatto, infatti, deve avvenire per mezzo di uno stile proporzionato alla gravità degli eventi da riferire, sobrio e misurato, al fine di evitare forme di offesa diretta o indiretta nonché eccessi rispetto allo scopo informativo da conseguire, con la conseguenza che tale limite si considera violato tutte le volte che si utilizzano termini o argomenti intesi a screditare il soggetto preso a bersaglio, evocando una pretesa inadeguatezza personale. Alla luce di quanto sopra, nel caso concreto relativo alla richiesta di ristoro del danno scaturito da lesione del diritto alla reputazione, il tribunale, accertata la sussistenza della verità e della pertinenza della notizia divulgata, elementi da soli non sufficienti a escludere la responsabilità del convenuto, ritenendo, per converso, superato il limite della continenza, risultando, infatti, le espressioni utilizzate dal convenuto gratuitamente denigratorie e offensive della persona, dichiara lo stesso responsabile della condotta lesiva della reputazione dell’attore e per l’effetto lo condanna al risarcimento dei danni dallo stesso sofferti” (Tribunale Genova, sez. II, 30/06/2010, n. 2621, in Guida al diritto 2010, 41, 65). Degni di nota, sia pure ai nostri limitati fini, ci paiono anche alcuni pronunciamenti con cui è stato sottolineato che ricorrono non soltanto i presupposti per richiedere la tutela civile, ma anche gli estremi del reato di diffamazione, quando l’addebito è espresso in forma tale da suscitare il dubbio su una condotta disonorevole (Cassazione Penale, sez VI, 80/2768) o vengono pronunciate espressioni insinuanti, idonee a ledere o a mettere in pericolo l’altrui reputazione (Cass. Pen., sez. V, 81/10512).

In attesa di un’auspicata rivisitazione della complessa e delicata materia, la giurisprudenza si mostra dunque attenta a reprimere, con la gradualità tipica del nostro ordinamento, non solo i casi in cui le notizie sono frutto di vere e proprie invenzioni, travisamenti od offese dirette, ma anche le offese procurate indirettamente, attraverso un negligente lavoro di ricerca, una critica sproporzionata ed un linguaggio non leale, suggestionante o, come sempre più spesso accade, intriso di sbeffeggiamenti e pettegolezzi che nulla hanno a che vedere con la notizia e sono invece usati, consapevolmente, al solo fine di attirare la curiosità del lettore e screditare maggiormente il soggetto preso di mira.

 12 ottobre 2012 –  Avv. Marco Mazzola

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